*La parola turzo deriva dal latino tursus (stelo, gambo) e nel dialetto napoletano viene usata con diverse accezioni. Si nu turzo. Sei uno stupido. 'O turzo 'e penniello. Quello che resta di un pennello usurato. 'O turzo 'e vruoccole. La parte dura del broccolo. Dall'etichettare una persona stupida, all'indicare una parte poco edibile di un vegetale, la parola "turzo" assume sempre un significato negativo: è una cosa inutile, da scartare o da buttare via. Ma, così come nella vita, anche in cucina, si commettono spesso errori di valutazione. Molti di quelli che crediamo essere scarti alimentari, soprattutto vegetali, sono spesso le parti che contengono la maggiore concentrazione di nutrienti: le bucce di patata, la parte dura del cavolfiore, i gambi dei carciofi, le scorze di fave... e, naturalmente, i gambi della cima di rapa. Quando compro le cime di rapa solitamente realizzo un trittico di ricette: le foglie più grosse finiscono saltate in padella o in una zuppa, le cimette, ovviamente, con la pasta, e i turzi di cime di rapa, prendendosi una bella rivincita, diventano una deliziosa salsa. INGREDIENTI
PROCEDIMENTO Lavate e tagliate i gambi di cime di rapa. Lessateli per 10 o 15 minuti. Lasciateli scolare bene e raffreddare. Frullateli con le noci, i semi di girasole, l'aglio, il sale. Aggiungete il peperoncino nella quantità che preferite. Incorporate in ultimo l'olio. Frullate a lungo per sminuzzare il più possibile la parte più fibrosa dei gambi. Potete conservarla in frigo per tre o quattro giorni in un contenitore per alimenti. CONSIGLI Alcuni consigli su come potete utilizzare questa salsa:
0 Commenti
L’altro giorno, Gianna (la mia “pusher” di frutta e verdura), mi ha raccomandato di comprare le mele: “queste sono mele vere e non so se ne troverò altre”, mi ha detto. Sapevo esattamente cosa voleva dire con “mele vere”, così ne ho prese un bel po’. I prodotti ortofrutticoli, soprattutto negli ultimi anni, hanno subito una drastica riduzione delle specie, che ne ha visto limitare le coltivazioni a quelle più convenienti sul piano economico, e, quindi, anche a quelle più belle dal punto di vista estetico. Un esperimento, condotto in America, ha decretato, che non siamo più in grado di apprezzare il sapore dei frutti più comuni, come la mela o la fragola ad esempio, perché ci siamo troppo abituati al sapore di “fragolosità” o di “melità” dei prodotti industriali. In pratica, il nostro cervello riconosce come maggiormente verosimile un sapore sintetico di mela, innalzato oltre ogni aspettativa naturale, tanto da decretare poco invitante o poco “meloso” il sapore della mela vera. Già nel 1985, Michel Serres, nel suo libro “Le cinq sens” ci avvisava così: “L’albicocca molto presto non avrà altro gusto se non quello della parola che entra in bocca per pronunciare il suo nome.”. I giovani soprattutto, tendono, perché invogliati dal marketing, a consumare prodotti che giocano su gamme di sapori sempre più ristrette e rozze: il forte e il piccante delle salse di condimento da un lato, il dolce delle bevande zuccherate dall’altro, volendo fare una sintesi assoluta. In questo modo, il piacere di mangiare si esprime attraverso emozioni indotte in modo artificiale, in maniera istantanea e semplificata, esagerata al limite del violento, ma soprattutto effimera. Per citare testualmente il prof. Simonetti (docente di food design del Politecnico di Milano), ci stiamo privando “di ogni sottigliezza gustativa” finendo per “restare orfani di aree di cultura materiale sempre più vaste, dunque, di ciò che lega il sapore al sapere.”. Mentre ci illudiamo, quindi, di avere un’alimentazione sempre più ricca, in realtà ci stiamo impoverendo, soprattutto perché siamo spinti a consumare cibi di cui non conosciamo né “l’origine, né la storia, né la composizione reale”. Ci nutriamo, di fatto, di alimenti senza identità: i C.A.N.I (composti alimentari non identificabili), come li chiama, appunto il prof. Simonetti. I C.A.N.I infatti rappresentano circa 80% (ma forse anche di più) di ciò che mangiamo e che, a quanto pare, non è affatto quello che crediamo di mangiare. Ho pensato molto a cosa fare di queste mele, oltre a quelle che ho mangiato tal quali, chiaramente, e alla fine ho deciso di usarle in ogni modo possibile in un’unica ricetta. Questa torta di mele è fatta di succo di mela, di mele intere, di salsa di mele e di mele essiccate, perché se abbiamo bisogno di sentire la “melosità” affinché qualcosa ci sappia di mela, che almeno sia una “melosità” fatta di mele vere. Fonte: http://www.pages.mi.it/oldpages/?p=3244. INGREDIENTI
PROCEDIMENTO Preparate, meglio se il giorno prima, la salsa di mele, secondo il procedimento che trovate a questo link. Mischiate insieme la farina 2, la farina di avena, la cannella e il pizzico di sale. Aggiungete l'olio e il succo di mela, continuando a mescolare con la frusta fino ad ottenere un composto liscio ed omogeneo. Ungete e infarinate una teglia per torte di 16 - 18 cm di diametro. Tagliate le mele a fettine molto sottili. Aggiungete al composto il lievito e il limone mescolando energicamente. Versate il composto nella teglia e sistemate le mele secondo il disegno che più vi piace. Infornate, in forno già caldo, a 180° per circa 35 minuti. Sfornate e fate raffreddare. Una volta raffreddata potete tagliare in 2 la torta e farcirla con la crema di mele. Polverizzate le mele secche e distribuite sulla torta come fosse zucchero al velo (in alternativa potete usare anche della farina di cocco). Se preferite, potete anche utilizzare una teglia per muffin: otterrete delle piccole tortine da servire con una cucchiaiata di salsa di mele.
Saranno perfette per l'ora del tè. Mi piacciono così tanto i cavolfiori. E, credetemi, mai avrei pensato di poterlo dire. Il cavolfiore, in casa mia, quando ero bambina, si cucinava in tre modi: disfatto in un brodo acquoso in cui mia nonna cuoceva degli spaghetti spezzati (era uno dei suoi piatti preferiti!); bollito oltre ogni ragionevole limite; sempre eccessivamente bollito, come ingrediente dell’insalata di rinforzo. Insomma, il cavolfiore della mia infanzia, era un vegetale maltrattato che, per questo motivo, esprimeva il peggio di sé. Io però ero piccola, cosa potevo saperne? Così ho finito per odiarlo, inserendolo per sempre nella lista nera dei cibi nauseabondi. Ho trascorso tutta la mia vita senza di lui e, quando da grande mi è stato riproposto in tutto il suo potenziale, nonostante mi incuriosisse, l’ho sempre respinto. Per coerenza? Si, forse si. Dopotutto per più di vent’anni avevo detto che non mi piaceva; tutti sapevano che non mi piaceva. Ho perso il conto delle volte in cui mi sono trovata a perseguire un’idea solo perché l’avevo pensata, decisa e proclamata tempo prima, senza tenere minimamente conto di quanto, nel frattempo, fossi cambiata, e con me la direzione dei miei desideri. In realtà, temevo che rinunciare a un sogno (anche se non era più il mio sogno), ad un’opinione (in cui forse non credevo neanche più), a quelli che erano i piani prestabiliti (soprattutto se già condivisi con altre persone), potesse sminuirmi agli occhi degli altri, farmi perdere la mia identità. O meglio, l’identità del mio personaggio. Eh si, perché nell’immaginario collettivo, le persone coerenti (leggi pure rigide), sono persone determinate, forti, vincenti. Niente di più sbagliato, perché le persone rigide sono solo rigide. La coerenza, per definizione, è “ la connessione e l’interdipendenza tra le parti”: niente di più elastico, quindi. Essere coerenti, a quanto pare, vuol dire vivere completamente immersi nella realtà che ci circonda e essere disposti ad adattarci, proprio come fossimo delle barche in mare, ai suoi movimenti ondulatori, alle sue increspature, ai cambi di direzione imposti dai venti, cercando di non affondare. Cosa che, peraltro, accade sicuramente a chi s'irrigidisce. Quando mi sono trovata ad ostentare la coerenza (intesa come rigidità) quale fosse una virtù, non ho fatto altro che compromettere le relazioni con le persone a cui tenevo, perdere l’occasione di sfruttare la spinta travolgente di un cambiamento, ammettere che, sì, dopotutto, avevo perso, ma almeno ero stata la più testarda. Che amara consolazione. Che sia necessaria la resa, talvolta, per fortificarsi e rendere migliore la nostra vita? Questi cavolfiori mi dicono di sì. INGREDIENTI
PROCEDIMENTO Cuocete le cimette di cavolfiore al vapore per 5 minuti. Lasciatele raffreddare. Preparate una pastella con 4 cucchiai di farina di ceci, l'acqua, il sale e il pepe. Mescolate il pangrattato e i semi di sesamo. Disponete una ciotola con i restanti 3 cucchiai di farina di ceci. Impanate le cime di cavolfiore prima nella farina di ceci, poi nella pastella e infine nel pangrattato. Cuocete in forno caldo a 200° per 10 - 15 minuti, dopo averli irrorati con un filo d'olio. Abbiate cura di girarli a metà cottura. Se siete in vena di fare un piccolo sgarro, potete anche friggerli. |
Categorie
Tutto
Archives
Dicembre 2017
|