C'ero già stata a Procida d'inverno. Sulla nave dell'andata ero molto agitata: riuscivo solo a pensare che se l'avessi trovata triste, deprimente, vuota, se veramente non mi fosse piaciuta lontana dai riflettori del sole estivo, questo avrebbe messo in crisi un progetto di vita a cui, ormai, avevo cominciato ad affezionarmi. Arrivammo una mattina di gennaio e fu una settimana strana. I giorni scivolarono via alternando lunghe ore assolate a improvvise tempeste di pioggia. E così poteva capitare di ritrovarsi sotto le coperte a sorseggiare una tisana calda, subito dopo aver pranzato in terrazza. Molte persone ci aprirono le porte delle proprie case in un domino di inviti ad aperitivi, cene, passeggiate... Era inverno, pioveva spesso e io mi ero preparata al peggio. Eppure, sulla nave del ritorno, guardando il porto allontanarsi, regalai un sorriso complice a quell’isola che, proprio quando sembrava che dovesse definitivamente deludermi, aveva trovato ancora una volta il modo di sorprendermi. Non dirò che non è difficile vivere su un'isola d'inverno. Non perché il cattivo tempo blocchi i collegamenti via mare, anche perché capita raramente; non perché si viva tutto il tempo immersi nella mesta atmosfera della festa che finisce, anche perché a settembre, quando i turisti lasciano il porto, sembra che le strade ricomincino a respirare meglio, che la vita si riprenda i suoi tempi dopo un lungo periodo di frenesia, e che la gente si sorrida nuovamente riconoscendosi. La vita, d'inverno, su un'isola, è più dura che altrove perché, quando a sera vedi partire l'ultimo traghetto per la terraferma e realizzi che da quel momento in poi avrai solo mare intorno, sai che non puoi più scappare da te stesso. Il vento quando arriva ulula e soffia tanto forte che ti intralcia il passo. Su un'isola, me lo hanno detto in molti, la natura è forte e prepotente. All'inizio ti fa paura ma poi cominci a pensare di non poterne fare a meno, proprio come non si può fare a meno di una medicina amara. E ti arrendi all'idea che è proprio vero quel luogo comune secondo cui solo un’impetuosa tempesta di vento può spazzare via tutte le nuvole e riportarti di nuovo il sole, che lentamente allungherà le ombre e prepotentemente riaccenderà i colori. E tutto può ricominciare. Ho cercato sul vocabolario la definizione di ricominciare: la prima è “iniziare daccapo”, la seconda invece è “riprendere dopo un'interruzione più o meno lunga”. Qui è esplosa la primavera e io sto per ricominciare, in entrambe le accezioni del termine. Riprendo questo blog dopo una lunga interruzione e per l'occasione ho deciso di rimetterlo a nuovo. Ricomincio daccapo perché adesso ho una nuova vita di cui prendermi cura. Non so di preciso come sarà questa nuova primavera, ma ora so per certo che non esistono inverni isolani che non lasciano dentro una traccia profonda. Foto di Roberto Carbonara
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La mia assenza da queste pagine è stata veramente lunga, e così adesso mi ritrovo a dover recuperare tutto il tempo perduto. Sono tante le cose lasciate in sospeso, ma fortunatamente molte di queste le ho tenute tutte a mente per potervele raccontare al mio rientro. Avevo già cominciato a mostrarvi l'esperienza del premio Malvarosa e vi avevo anche già presentato tutti i miei compagni di viaggio, ma in realtà il tour guidato per le strade di Napoli, l'intrusione nel laboratorio artigianale dei pastori di Ferrigno a S. Gregorio Armeno e l'esperienza suggestiva della visita all'atelier dell'artista Lello Esposito, sono state solo una piccola parte del fittissimo programma previsto per noi vincitori del premio. Al piacere e all'emozione che ricevere un premio ti può regalare, ho sommato un certo bagaglio di esperienze che, sono sicura, porterò con me per lungo tempo. Ho imparato ben tre diverse tecniche di cottura della pasta con lo chef Beppe Guida. Ho impastato la pizza con Ciro Oliva, della pizzeria "Concettina ai tre Santi di Napoli". E scusate se è poco. Ho assaggiato vini alle dieci del mattino circondata da centinaia di oche nella cantina Ocone, a Ponte, nelle terre del Sannio, in provincia di Benevento. Ho infuso pomodori nella camomilla sotto la guida dello chef Maurizio De Riggi, con cui evidentemente condivido l'idea che non bisogna mai aver paura di sperimentare, dissacrare, azzardare, rivoluzionare, andare avanti. Anche in cucina. Anche con la cucina napoletana, che, ancorata alle sue granitiche tradizioni, da troppi anni ormai, non fa che ripetere se stessa. Ho calpestato la terra scura del Vesuvio, una terra ricca e benedetta, capace di produrre frutti tra i migliori al mondo; una terra maledetta e iraconda, capace anche di generare morte e distruzione (Ercolano).
Ma soprattutto, come vi ho già detto, ho cercato di esplorare ogni singolo aspetto di questa tanto amata terra mia, attraverso gli occhi di chi la vede per la prima volta. Ed in quegli occhi ci ho visto uno spettacolo meraviglioso. Un giorno di primavera ero seduta al tavolino di un ristorante alla Corricella, il porto dei pescatori di Procida, e al mio fianco, impegnati in un acceso battibecco, c'erano un uomo e una donna di mezza età. Parlavano in spagnolo, anzi, litigavano in spagnolo. Lo spagnolo io l'ho imparato da autodidatta qualche anno fa, e quindi riuscivo a capire abbastanza bene tutto quello che si dicevano. Non sono molte le occasioni che ho per sfoggiare la mia abilità con questa lingua e quindi, dopo aver atteso la fine del litigio, tentai un maldestro approccio. Si scusarono moltissimo una volta realizzato che avevo capito perfettamente gli improperi che si erano scambiati, ma poi piano piano la conversazione si fece gradevole. Lei era avvocato, lui faceva una non ben precisata professione che lo portava a viaggiare in continuazione in giro per l'Europa, molto spesso in Italia, alcune volte anche a fermarsi per settimane nello stesso posto. Si lamentava, la signora spagnola, della cucina italiana. Cercai di superare l'iniziale risentimento per quel giudizio che mi sembrò quasi un affronto e provai ad ascoltare le sue ragioni. "Mangiate sempre grano, grano, grano. Nei menù dei ristoranti non esiste nessun altro cereale. E poi, nella cucina italiana non esistono i legumi. E le verdure? Sono pochissime e sempre le stesse tutto l'anno: zucchine, peperoni, pomodori… E i menù dei ristoranti? Ci sono sempre le stesse cose: pasta, pizza, lasagna. Quando, come capita a noi, sei costretto a mangiare tutti i giorni, a pranzo e a cena, per settimane, sempre al ristorante, i primi giorni provi qualche piatto tipico del posto, e poi sei costretto a rimangiarli per tutto il tempo che ti rimane." La ascoltavo attonita e spesso avrei voluto dirle che forse era lei a scegliere male i ristoranti. Piano piano però cominciai a capire. Era vero. La ristorazione turistica, quella a cui questa signora faceva riferimento (e quella a cui necessariamente devi rivolgerti, per motivi economici, se hai bisogno di consumare tutti i tuoi pasti, per settimane, al ristorante), ha un'offerta decisamente piatta e si preoccupa relativamente poco di esplorare ad ampio raggio le nostre vere radici culinarie. Ma come possiamo far credere a uno straniero che nella cucina italiana non esistano i legumi? che non esistano le stagioni? che si mangi solo grano? La nostra storia è molto di più che maccheroni, lasagna e solanacee. La vera cucina regionale, soprattutto quella del sud Italia, per varietà di materie prime, abbinamenti di ingredienti, modalità di cottura, ecc. somiglia molto di più a quella mediorientale che a quella caricaturale della little Italy a cui sia la ristorazione che (purtroppo) la cucina domestica, anche in Italia, si sono conformate. Quando mi sono approcciata al libro Veggiestan non l'ho fatto con la curiosità di chi vuole scoprire una cucina straniera, ma ho adottato l'approccio di chi vuole meglio approfondire le sue vere radici. Ricetta dopo ricetta, un ingrediente dopo l'altro, tra le pagine di questo libro sono riuscita a scorgere i campi coltivati della mia terra natìa, i riti, i gesti e le pignatte dei mie avi, sapori e profumi che, in qualche modo, sento che mi appartengono, patrimoni culturali che, malauguratamente, stiamo dimenticando. Dopotutto, nelle terre del Veggiestan, siamo tutti figli dello stesso mare. Dovremmo cercare di non dimenticarlo mai. CUORI DI CARCIOFO CON SALSA AL PISTACCHIO Foto di Roberto Carbonara
Sugarless è il primo libro di Romina Coppola, food blogger di origini beneventane, che racchiude 51 ricette di dolci completamente privi di ingredienti di origine animale, preparati spesso senza zucchero o comunque con un contenuto di zucchero qualitativamente migliore e quantitativamente (molto) minore rispetto a quello a cui ci ha abituati la pasticceria classica. Le ricette del libro sono divise per stagione, perché Romina vive nelle bellissime campagne di Faicchio, completamente immersa nella natura, dove l'alternarsi delle stagioni non è un particolare di poca rilevanza. Il sito di Romina www.sugarless.it è stato determinante nel mio percorso culinario, fin dal primo momento in cui ho deciso di dire addio a grassi animali, ingredienti raffinati e cibi finti vari. Il suo semifreddo allo yogurt è stato il primo dolce vegano e senza zucchero che ho preparato in occasione del mio trentunesimo compleanno. Da quella sera in poi, sono piovuti complimenti ad ogni ricetta firmata sugarless. "Ho sempre pensato che qualsiasi azione, ogni decisione, ogni spostamento, ogni scelta di prendere una strada piuttosto che l'altra, fosse frutto del caso. Il percorso che ho intrapreso negli ultimi due anni mi ha portata a diventare oggi una persona completamente diversa. Una persona che ogni giorno accoglie gli eventi con la certezza che quello che accade avviene per un motivo e che mi porterà a fare nuove conosce e scoprire nuove realtà." Questo è l'inizio del libro Sugarless, e questa è anche la frase che, secondo me, rappresenta di più Romina e il suo lavoro. Sono passati tre anni dal libro che vi sto presentando e lei è già pronta per il lancio della sua seconda opera, completamente diversa dalla prima. Romina cambia, si evolve e si rinnova in continuazione. Potrei scommettere che proprio mentre sarà intenta a presentare il suo nuovo lavoro, lei sarà già andata avanti e tra qualche tempo ci mostrerà ancora una nuova Sugarless. PIZZA DI FROLLA E SUSINE Foto di Roberto Carbonara
Quando comincio un nuovo progetto, per esorcizzare la paura dell'inizio e per evitare inutili giri a vuoto, cerco sempre di tenere ben presente a chi o a cosa voglio che assomigli. Nel tempo mi sono accorta che trovare punti di riferimento validi e importanti, non è affatto semplice come potrebbe sembrare. Ricordo benissimo che, quando ho deciso di far nascere unaelle, uno dei punti di riferimento che avevo scelto era Valentina Solfrini con il suo blog Hortus Cuisine. Ben presto mi resi conto che provare a somigliarle era veramente troppo ambizioso da parte mia. Non ero neanche lontanamente capace di fare foto belle come le sue ed ero decisamente troppo razionale per raccontare il mondo come lo faceva lei. Ho rinunciato subito a volerle assomigliare e ho preferito semplicemente ammirarla. Me la sono immaginata spesso Valentina. L'idea che ci facciamo di una persona prima di conoscerla (ma a volte anche dopo) racconta spesso più di noi stessi, di come ci giudichiamo e delle paure che abbiamo, che della sua vera essenza. Quando ho realizzato di non avere il talento di Valentina ho maturato quasi automaticamente l'idea che lei dovesse essere sicuramente bravissima, ma necessariamente snob, presuntuosa, fredda, inarrivabile, appunto. Perché inarrivabile era per me. Ho finalmente conosciuto Valentina al premio Malvarosa e, ovviamente, mi sono trovata davanti l'esatto contrario di quello che immaginavo. Valentina è dolce, simpatica, umile; ha un'anima pulita e semplice, capace di stupirsi, sognare e far sognare di fronte a particolari che tu neanche avresti mai notato. La sua personalità spicca decisamente in una comunità tanto "particolare" come quello dei food blogger, di cui lei parla con obiettività, formulando lucide analisi critiche, soppesando correttamente sia i lati positivi che quelli negativi di questo strano mondo. Lei è sicuramente un membro importante di questa comunità, e ciononostante, in essa si distingue decisamente. Per un paio di giorni, nel dicembre dell'anno passato, Valentina ci ha accolti nel suo mondo e sui suoi set, insegnandoci luci e ombre della food photography in stile Solfrini. Sono stati due giorni ricchi, pieni e interessanti. Valentina ora non è solo la creatrice di parole e immagini bellissimi e suggestive, a cui io mai potrò somigliare, ma un'amica che porto nel cuore. E a casa Solfrini mi sono sentita veramente come se fossi a casa mia. Quando sei a casa di gente di Romagna, sei sempre a casa tua. Foto realizzate durante la lezione di fotografia con Valentina.
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Dicembre 2017
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